Amo i versi di Shakespeare e le mirabolanti visioni di Borges. È però soprattutto grazie agli appunti che Bruce Chatwin prendeva sulle sue moleskine se epoche e costumi appartenenti a latitudini lontane sono oggi gelosamente custodite nel mio zaino da lettore.
A dirla tutta, la mia passione per i racconti di viaggio non è nata con la scoperta delle opere di Chatwin, ma con la lettura di un libro con quasi due secoli di vita alle spalle. Un volume a cui tengo moltissimo perché è stato il primo acquisto "serio" fatto dopo aver contratto il morbo di Gutenberg. Si, il pericolosissimo morbo della bibliofilia, un male che lentamente attecchisce nella mente e nel portafogli del malcapitato.
Lo scrittore e critico letterario Arrigo Cajumi una volta ha scritto che "Bibliofili non si nasce, si diventa. È un un vizio che viene con l'età, con i primi quattrini, con la sensazione che si sta per discendere la curva, ed è opportuno non trascurare neanche i più piccoli e semplici piaceri“. Sottoscrivo tutto.
Ma torniamo alla storia che voglio raccontare. Un tardo pomeriggio dicembrino di qualche anno fa, complici degli impegni di lavoro, mi trovavo a Napoli. Stavo passeggiando tra i vicoli e le piazze del decumano maggiore, evocativo ingresso al centro antico della città, dichiarato dall’UNESCO “Patrimonio dell’Umanità”. Penetrato nel decumano dal lato di port'Alba, storica via napoletana dei librai, giravo tra palazzi, cortili e botteghe pregni di quella stessa magia del Natale che, molto tempo prima, Eduardo era riuscito a rappresentare perfettamente sul palco di un teatro.
Quel giorno, sotto i pallidi raggi di un sole che si faceva via via sempre più svogliato, il decumano maggiore pareva davvero un teatro a cielo aperto.
Vagando tra i vicoli, imboccai via San Pietro a Majella. Arrivato all’altezza dei numeri civici 32 e 33 mi imbattei in quella che sarebbe diventata una delle librerie del mio cuore, la Libreria Colonnese. Sin dalla sua nascita avvenuta nel 1965, questa bottega fatta di mattoni, legno e carta fondata da Gaetano Colonnese e Maria Corna, ha giocato un ruolo centrale nel tessuto sociale e intellettuale della città partenopea.
Scrigno di volumi rari, antichi e di grande pregio, così come di testi teatrali e cartoline da collezione, per decenni la Colonnese è stata un punto di riferimento per tutti gli amanti della lettura e i bibliofili d’Italia.
Come detto, all’epoca il morbo di Gutenberg cominciava a farsi strada. Al mio profilo di lettore si stava rapidamente sovrapponendo quello di bibliofilo. La luce calda dei faretti illuminava le vetrine ricolme di magnifici frontespizi e dorsi splendidamente rilegati.
Ai miei occhi le vetrine della Colonnese somigliavano più a quelle di una vecchia e aristocratica gioielleria che a quelle di una libreria. Mi sentivo come deve essersi sentito Charlie Bucket la prima volta che ha messo piede nella fabbrica di quel matto di Willy Wonka. Ero in trance.
Inebetito, rimasi a osservare le vetrine per un bel pezzo. Il mio subconscio aveva già deciso che, il 25 dicembre di quell’anno, ad attendermi sotto l’albero ci sarebbe stato un vero libro antico.
Dopo un lungo sbirciare con gli occhi, fui attratto da un volumetto dal formato in 24° poggiato su una delle mensole poste ai due lati dell’entrata. Il frontespizio riportava “Viaggio nell’interno dell’Africa fatto negli anni 1795, 1796 e 1797 da Mungo Park”. Non avevo mai sentito parlare di quell’ardito esploratore scozzese dal nome tanto buffo.
Ben presto, l’idea di fare mio un diario di viaggio scritto e stampato in piena epoca coloniale che per di più poteva vantare una splendida e robusta legatura in mezza pelle, nonché nove tavole acquerellate incise in rame, innescò in me una pulsione irrefrenabile. Quel genere di pulsione che non ammette repliche o tentennamenti.
Entrai nella libreria. Difficile descrivere l’atmosfera compressa tra quelle mura. Sotto una fioca luce giallognola, ovunque vedevo scaffali e tavoli sui quali i libri si alternavano alle stampe che, a loro volta, si alternavano a curiosi gadget o a cestini pieni di cartoline liberty.
"Molte cose uniche (utili ed inutili)" c'era scritto sulla loncandina collocata dietro il vetro della porta d'ingresso della Colonnese. Era proprio così.
Non indugiai un attimo. Mi fiondai verso il bancone e chiesi del diario di Park ad un ragazzo che aveva qualche anno più di me. Era Vladimiro Colonnese, il secondogenito del fondatore. Con il senno di poi, credo che quel giovane ma già esperto libraio, avesse capito immediatamente che davanti aveva uno sbarbatello alle prime armi con i libri antichi.
Estremamente gentile e cortese, ricordo che prese dalla vetrina il volume in questione e me lo passò come se dovessi soppesarlo. Quel gesto mi diede quasi la sensazione che avessi la responsabilità di attribuire un peso alla bellezza. Così feci e nel farlo notai anche l'elegante scheda bibliografica a corredo del volume che i Colonnese elaboravano per ogni libro di pregio che proponevano.
Mentre lo incartava, il libraio mi fornì un po’ di informazioni aggiuntive sul diario di Mungo Park. Cosa che solo i veri librai fanno e sanno fare. Dopo aver pagato, salutai calorosamente Vladimiro e lasciai la libreria.
Ricordo che mi diressi verso la discesa di via Mezzocannone fluttuando a mezzo metro da terra fantasticando sul mio prossimo Natale. Mancavano pochissimi giorni che per me si sarebbero tramutati in settimane. Mi ero infatti imposto di scartare il regalo non prima del 25 dicembre. Come previsto, il tempo passò molto lentamente.
Provate a chiedere a qualsiasi bibliofilo cosa significhi avere a portata di mano un libro tanto desiderato e non poterlo aprire, toccare, annusare e divorare avidamente. Non in senso letterale. Almeno per il sottoscritto. Quella stramba decisione fu certamente il risultato di un mix distorto di feticismo e autolesionismo.
Mi torna in mente uno dei tanti memorabili passaggi nascosti tra le pagine de La casa di carta di Carlos Marìa Dominguez: "[…] appassionata difesa del vizio impunito per eccellenza, a cavallo tra mania di possesso e insaziabile fame di lettura, dove procurarsi un libro e lasciarlo coincidere con la propria esistenza è assai meno faticoso […]".
La mattina di Natale scartai finalmente il mio regalo. Ero solo. Pochi mesi dopo essere tornato da un viaggio nelle Indie orientali, l'esploratore scozzese Mungo Park aveva affrontato l’ennesima avventura: addentrarsi nell'interno dell'Africa. Il viaggio durò ben tre anni dal 1795 al 1797. Durante le sue esplorazioni lo scozzese tenne un diario. In seguito, anche grazie alle sue scoperte e rivelazioni, la concezione degli europei sull’Africa occidentale sarebbe cambiata radicalmente. Il contributo fornito da Park alle esplorazioni e alla conoscenza dell'Africa, fu tale che le sue gesta vengono ricordate anche da Ismaele nel quinto capitolo di Moby Dick.
L'edizione italiana del diario è datata 1833 e, da quel Natale, riposa tra i miei scaffali in attesa di chi se ne prenderà cura dopo di me. Come è giusto che sia.
Ho una visione esoterica dei libri, in particolare di quelli antichi: è stato il diario di Mungo Park a scegliere me. Non il contrario.
Quella mattina, prima di cimentarmi nella vera e propria lettura del libro pianificata per i giorni successivi, aprii a caso una pagina e lessi questo passaggio:
"...non trovai un buschreeno, nè un kafiro che non fosse intimamente persuaso della virtù miracolosa degli amuleti e la ragione è che tutti gli abitanti di quella parte dell'Africa considerano l'arte di scrivere come una specie di magia."
Tempo dopo, proprio seguendo la magica scia lasciata dalla prosa di Mungo Park, la mia vita si sarebbe incrociata con i racconti di viaggio di James Cook, Thomas Edward Lawrence, Robert Byron, Patrick Leigh Fermor, László E. Almásy, Bruce Chatwin, Peter Hopkirk, Jon Krakauer, Bill Bryson, Sylvain Tesson e tanti altri scrittori raminghi. Ma quelle sono altre storie.
Dedicato alla memoria di Gaetano Colonnese, Maria Corna e alla loro mai dimenticata libreria.
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