La lettera in casa de Bartolis aveva fatto rumore.
Mirjna, la colf - badante della professoressa Rosa D'Acunto, al rientro dalla spesa quotidiana, aveva dato come al solito uno sguardo nella cassetta postale per fare pulizia.
Aveva prima estratto volantini che in successione pubblicizzavano un supermercato, una scopa elettrica e un'enoteca e poi si era ritrovata la lettera tra le mani.
Strana era strana. Una busta ingiallita con un vecchio francobollo da 15 lire.
A guardarla doveva avere almeno cinquant'anni. Per l'esattezza cinquantacinque, come sarebbe emerso nei giorni successivi a seguito di attento esame del timbro. L'indirizzo era scritto a mano in bella grafia: le O con le alette, le A ben disegnate, le S panciute. Una grafia lunga, leggermente tremolante ma chiara. Come quella dei vecchi, aveva pensato Mirjna. Strana era strana anche per il nominativo del destinatario: Pregiatissimo Signor Professor Augusto de Bartolis, corso d'Italia 23…
Il Professore era deceduto da vent'anni e tranne la bolletta telefonica che ancora era intestata a lui, per il resto non riceveva posta da quattro lustri. Pure la redazione del bimestrale "Scacchi e Dama", cui era stato abbonato da sempre, dopo qualche mese dalla morte aveva dovuto prenderne atto e aveva cessato di spedirgli le copie.
Quella lettera irrompeva improvvisa a guastare la perfezione dell'oblio. La busta era pure senza mittente.
La professoressa D'Acunto, vedova del professore, avrebbe voluta aprirla immediatamente e leggerne il contenuto, ma al momento ostacoli etici e sensoriali le avevano impedito di soddisfare la sua curiosità.
Prima di tutto la lettera era indirizzata alla buonanima e sebbene lei ne fosse la legittima erede, non era l'unica. Tra i figli Paolo e Annabella si era svolta per anni una battaglia sottotraccia per l'uso dei beni del padre. Era stato così per la casa al mare, per il frutteto, per la vecchia Lancia Fulvia, che più passavano gli anni più conferiva prestigio a chi ne avesse il volante tra le mani, per la biblioteca compreso la boiserie, fino alle cose minime: la doppietta da caccia del nonno, conservata dal babbo come una reliquia, la collezione del Corriere della Sera. In vita il professore ne comprava sempre due copie, una la leggeva l'altra la conservava.
I due ci tenevano tanto alla collezione, non perché sapessero effettivamente cosa farne, ma perché sapevano come li facesse apparire: fini intellettuali.
Solo da poco si era ristabilito tra loro un delicato equilibrio.
Quella lettera, che proveniva da così lontano, andava necessariamente aperta alla presenza di tutti.
Né, a causa dell'altro impedimento, quello sensoriale, la professoressa D'Acunto poteva pensare di leggerla di nascosto.
La poverina aveva sviluppato un glaucoma che le aveva inesorabilmente ridotto il visus oltre a portarsi via, come effetto collaterale, anche un pezzo di empatia. Nella fase attuale era ormai affetta da una quasi totale cecità e da una crescente intolleranza verso il prossimo. Anche farsela leggere da Mirjna era fuori discussione. Non poteva certo fidarsi di una che il giovedì pomeriggio di ogni settimana usciva a cercare marito e a riempirsi i polmoni di fumo. Avrebbe spifferato il contenuto in men che non si dica e, quale che fosse, non le andava che diventasse pubblico.
La carta della busta era leggermente rugosa. Sotto la pressione delle dita si sfogliava in piccole pellicole eteree, trasparenti, segno evidente di vecchiaia. La vedova de Bartolis con la mano libera accarezzava la pelle sottilissima del dorso dell'altra, con la paura di sentirla cedere allo stesso modo della carta. Chissà quale passato avrebbe trovato in quelle righe. Probabilmente nulla di rilevante. Il professore era così lontano e la sua vita era stata così regolare, monotona, anzi, si sorprese a pensare, addirittura noiosa. Allungò il braccio verso il lato vuoto del letto e appoggiò la busta sul cuscino.
Domani avrebbe chiesto ai figli di passare per casa e avrebbe aperto la lettera insieme a loro. Da quando non li vedeva? Una settimana, forse due. Si sforzò di ricordarlo. Domani pensò, li vedrò domani.
Il professore in costume da bagno, seduto sul pizzo della sdraio, legge il giornale e canticchia. La vedova, che sa di essere vedova, lo guarda stupita: non lo aveva mai sentito cantare. Lui continua, si alza in piedi, alza il tono e canta a squarciagola. Ogni tanto fa dei piccoli inchini rivolti ai bagnanti. Poi d'improvviso si volta verso di lei, la guarda serissimo e s'immerge nel mare. Dopo due passi scompare. Lei capisce subito che non sarebbe più tornato in superficie, mai più.
Erano anni che non sognava il professore. È cosa logica, pensò, la lettera ha disancorato il ricordo incastrato tra le secche dell'inconscio, l'ha liberato. E allora ripensò al mare e al fatto che non potesse più guardarlo e le venne la malinconia e insieme la voglia di sentirne almeno l'odore e il rumore.
Chiamò Annabella dal telefonino con i numeri braille, le disse del sogno e della voglia di andare a Formia nella casa del mare. Era da tanto che non ci andava – < e poi – continuò - devo dirti anche un fatto del babbo>.
<Che fatto?>
<Una lettera>
<Che lettera?>
<Una lettera. E’ ancora chiusa. L’aprirò quando ci sarete tutti e due, tu e Paolo>
< E che roba è?>
<Poi ti dico. Intanto organizzati ché voglio andare a Formia, la leggeremo lì> e lo disse col tono imperioso di chi non ammette repliche.
Per Annabella la faccenda di Formia era da prendere sul serio. Le passerà, aveva detto Paolo, domani l'avrà già dimenticato.
<Ma la mamma è cieca non demente> aveva ribattuto lei con fastidio.
<Inventeremo scuse fino a quando si arrenderà>
<E se chiama un taxi e ci si fa portare?>
<Allora vuol dire che le diremo la verità, che l'abbiamo data in fitto. Le diremo che ci abita una famiglia perbene. È assurdo tenerla vuota. Solo di tasse se ne vanno un sacco di soldi l'anno>
<Che però paga lei>
<E allora?>
<Senti – aveva insistito Annabella – lo sai che la mamma preferirebbe morire piuttosto che affittare la casa. Ha la testa dura. E comunque, se chiede di conoscere gli affittuari, come la metti?>
A Paolo la storia della lettera non quadrava. La mamma l'aveva chiamato dopo aver parlato con Annabella e aveva insistito anche con lui per andare a Formia già quel fine settimana. Ci sarebbero andati certamente, aveva risposto, “ma non sarebbe stato meglio più in là, a primavera inoltrata?” Poi la mamma gli aveva detto della lettera, ma era stata evasiva, quasi reticente. “Una lettera del babbo”- aveva detto. Paolo non se ne capacitava. Una lettera che aveva lasciato il babbo? Era indirizzata a loro? Perché la mamma se ne ricordava solo ora, a vent’anni dalla morte? Doveva trattarsi di qualcosa di serio se aveva tenuto il segreto così tanto tempo e non aveva voluto anticipargli niente per telefono. Annabella, che certo già sapeva, non gliene aveva parlato. Che sapesse più di lui? Ma certo che ne sapeva di più. Ancora una volta, pensò, Annabella si dimostra per quello che è, ambigua, calcolatrice. La questione non era da poco, ci avrebbe pensato su. E poi questo fatto di Formia, un altro grattacapo, come se mancassero i problemi.
Mirjna aveva preso la lente d’ingrandimento – è quella del professore, stai attenta – le aveva raccomandato la professoressa, e con quella aveva esaminato il timbro postale. Non era facile, sotto la lente s’ingrandiva troppo e perdeva il fuoco. E poi, a guardare attraverso il vetro così doppio, quel pasticcio denso di lenti concave e convesse appiccicate tra loro, le girava la testa e le veniva la nausea. Ma perché l’aveva chiesto a lei e non ai figli? Prima o poi sarebbero passati per casa e quel fastidio se lo sarebbero sorbito loro. Niente, la professoressa si era messa di punta, il primo compito che le aveva affibbiato appena sveglia. <Non sarebbe meglio aprirla?> aveva azzardato, ma lei, la professoressa, non le aveva neanche risposto. Per due volte le era venuto un conato vero e proprio e si era dovuta fermare. Poi si era messa d’impegno e finalmente qualcosa era riuscita a leggere. Il timbro sul francobollo riportava la data del settembre 1965. Il giorno era molto sbiadito, poteva essere 5, 15 o 25, come altrettanto sbiadito era il luogo di partenza. Tranne le ultime tre lettere, quelle che le precedevano risultavano del tutto illeggibili. <E quali sono le ultime tre?>, aveva insistito la professoressa. <ONE – aveva risposto Mirjna – si legge solo ONE>. Poi aveva voluto sapere cosa ci fosse raffigurato sul francobollo. Come se quel particolare avesse avuto importanza. Mirjna stava sempre peggio con la nausea e la professoressa sembrava lo facesse di proposito.
<Ci sono raffigurati degli uomini in divisa, uno imbraccia il fucile. Si riesce a leggere Ventesimo…Resistenza>. Furono le ultime parole della badante prima che restituisse con sollievo la busta e corresse in bagno a vomitare.
Quel giorno la professoressa non le diede tregua. Era eccitata, diceva che il fine settimana l’avrebbe trascorso nella casa del mare. Aveva intenzione di partire già dal venerdì mattina, così appena Mirjna uscì dal bagno, senza un briciolo di pietà le ordinò di prepararle la valigia. Questo sì questo no, mettiamo la giacca rossa primaverile che non si sa mai ma la giacca non si trovava, e pure la pelliccia, ché se avesse fatto freddo. Una frenesia di abiti, cappotti e colli di volpe. Ci mancava da cinque anni, voleva che fosse un grande ritorno, che chiunque le dicesse “ma come sta bene signora, il tempo per lei si è fermato”
Continua...
Autore: Ottavio Mirra
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