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La cerca (parte seconda)

Ho visto morire i giorni e con i giorni gli anni. Due. Cinque. Dieci. Non so più quanti. Dalla mattina della mia partenza, ho errato così tanto da non riuscire a tracciare con precisione i confini temporali del mio vagare. Ciò che ho vissuto prima della fugace visione del Graal è avvolto in una nebbia che ad ogni alba si fa più fitta. Rari e fiochi sono gli echi di un passato che sta cedendo il passo all’oblio. I lunghi momenti trascorsi in solitudine, mi hanno insegnato che i giorni, perdendosi nell’infinito flusso della memoria, tendono via via a somigliarsi tra loro. Quando ciò accade, il passato, vera sostanza di cui è fatto il tempo, finisce per perdere il suo significato più profondo.

Gli zoccoli del mio cavallo hanno seguito i dolci declivi delle colline, sono penetrati nel folto dei boschi, hanno calpestato impervie pietraie, hanno sfidato il gelido ululato dei picchi montani fino ad affondare nelle molli sabbie marine. Ovunque ho cercato e nel farlo ho visto la bellezza ritirarsi per lasciare spazio alla tenebra. A tutte le latitudini ho scorto vividi i segni dell’approssimarsi della nuova trinità. Miseria, malattia e morte.

Tra i tanti momenti di profondo scoramento vissuti lungo il mio cammino, ricordo con particolare dolore quella mattina nella quale, poco dopo essermi rimesso in viaggio, mi imbattei in un crocicchio. Sulla destra, a pochi passi dal ciglio della strada, dal terreno spuntavano i resti di una quercia morta chissà quanto tempo prima. La vista di quel tronco massiccio sormontato da pochi rami storti, mi rammentò il funesto aspetto di una enorme mano di scheletro rivolta verso il cielo. Ad uno di quei rami era appeso un gabbione sopra al quale vedevo appollaiati tre grossi corvi neri. Distolsi lo sguardo da quelle orride creature, osservando più attentamente la sagoma che se ne stava immobile dietro le spesse sbarre arrugginite. Quel poco che restava del prigioniero, era ancora avvolto in un giaco dalle maglie di ferro strappate in più punti. Sotto la cintola vedevo sbucare in modo sbilenco solo la gamba sinistra che, in massima parte, era ancora fasciata da un’armatura pesantemente ammaccata. Il calzare di ferro che proteggeva il piede di quell’anima ormai perduta, sbucava dalle sbarre penzolando nell’aria a circa dieci piedi dal terreno. Mi avvicinai. Infinito dolore invase il mio corpo quando riconobbi lo sperone a forma di rosa posto dietro al tallone del cadavere. Esisteva solo un cavaliere che portava uno sperone di siffatta fattura. In vita, quel cavaliere aveva racchiuse in sé le più nobili tra le virtù. I miei occhi gonfi di lacrime stavano guardando i poveri resti di Sir Cador, uno dei più valenti uomini al servizio di re Artù.

Mai, prima di allora, il mio spirito sentì così vicino il soffio dell’incertezza, nemica mortale della speranza. Spesso, l’estrema spossatezza, la fame e il terrore mi hanno fatto vacillare. In quei momenti ho provato a dare un senso a ciò che stavo facendo ma, il più delle volte, è stato come scrutare tra le nuvole alla ricerca di forme di unicorni o di fauni. Nonostante tutto, posso affermare che anche durante le situazioni più difficili, mi è sembrato di intravedere, flebile, una speranza in controluce. Sono state quelle brevi visioni, a volte veicolate dai sogni, a darmi la forza per andare avanti. Una in particolare, riaffiora in questo momento con inspiegabile chiarezza.

Ricordo che ero sfinito e assetato dopo aver cavalcato incessantemente per ore e ore. Sfuggivo a una banda di predoni. Ero caduto in una loro imboscata tra le gole dei Monti Scavati. Chissà da quanto tempo mi seguivano. Con ogni evidenza, il mio cavalcare stando sempre più ricurvo sulla sella, annunciava ai quattro venti che ero un cavaliere debole nel corpo e nello spirito. Il cavallo ormai completamente ricoperto da una bianca patina di sudore, io distrutto. Dovevamo assolutamente riposare, pena la morte. Mi trovavo nei pressi dei ruderi di quello che un tempo doveva essere stato un tempio sorto nel cuore del boschetto di lecci che in quel momento mi proteggeva da sguardi minacciosi. Legata la mia cavalcatura ad un tronco d’albero che spuntava dalle pietre, crollai a terra perdendomi immediatamente nelle pieghe di un sogno.

Sognai Calendimaggio. Ero ragazzo tra i ragazzi a quell’ora della notte ancora lontana dal sopraggiungere dell’alba. Una giovane dai lunghi capelli rossi che, come le altre, aveva il contorno degli occhi completamente dipinto di nero, notò la mia presenza. Con il gesto della mano mi invitò a seguire lei e il resto della compagnia che, aiutata dalla luce delle torce, si stava intrufolando nella fitta vegetazione. L’aria era piena di suoni allegri e soavi emessi da corni e flauti suonati da qualcuno. Ai miei occhi le ragazze sembravano delle cerbiatte. Le vedevo saltellare tra le grosse radici degli alberi che, un po’ ovunque, spuntavano dal terreno umido. A piedi scalzi e coperte da una leggera veste di lino chiaro, le giovani raccoglievano fiori e rami secchi. I maschi, armati di tutto il necessario, avevano cominciato a tirar fuori dal terreno un giovane albero scelto dopo aver setacciato quella zona del bosco muovendosi simili a dei folletti.

Dopo essere stata ripulita dei rami e delle foglie, lasciando solo un ciuffo di giovani rami verdi nei pressi della sua sommità, la pianta fu trascinata fuori dalla vegetazione e caricata su di un carro. Il corteo di giovani vite si mosse in direzione del vicino villaggio, saltando, danzando e intonando un canto di cui ricordo solo le parole iniziali «Tutta la notte abbiam vagato con le torce ad illuminare il cammino…». La ragazza di prima mi invitò nuovamente a seguirli.

Giungemmo al villaggio che era ancora buio. L’albero venne collocato in una grossa buca che qualcuno aveva precedentemente scavato giusto al centro dell’abitato. Sedute davanti al fuoco, le ragazze si misero a comporre splendide ghirlande utilizzando fronde di sicomoro, biancospino, sorbo, calendole e fiori a me sconosciuti. Mi accorsi che alcune di quelle composizioni avevano al centro due sfere. Notando la mia curiosità, l’adolescente dai capelli come il rame mi si avvicinò spiegandomi che esse simboleggiavano il sole e la luna.

Poco dopo, l’albero venne abbellito con tutte le ghirlande, nastri e pezzi di stoffa. Finito quel lavoro, i ragazzi e le ragazze si posizionarono tutti in cerchio attorno alla pianta. Mentre la notte iniziava lentamente a sfumare nel giorno, vidi quei bei giovani danzare eterei come l’aria intonando ossessivamente queste parole «Portiam via la morte dal villaggio perché in esso rechiam la calda estate». La frase seguiva il ritmo della musica che, nel frattempo, aveva ripreso vigore.

Cominciavo a comprendere. L’unico ciuffo verde lasciato in cima alla pianta, serviva a rammentare che nonostante tutto, quello posto al centro del villaggio era ancora un albero portatore dell’essenza vitale capace di spazzar via i rigori dell’inverno. Pensavo a questo quando vidi uno dei ragazzini, completamente ricoperto di rami e foglie, staccarsi dal gruppo di danzatori.

Fermatosi ad un palmo di mano dal tronco, pronunciò queste parole «È forse questo un castello incantato nel quale le streghe si insinuano tra le foglie senza usare la porta?». Posta la domanda, sfoderò improvvisamente un coltello e colpì con forza la corteccia del tronco. Dalla ferita inferta si aprì un piccolo varco dal quale cominciò ad uscire una luce bianca e meravigliosa. Quella visione infuse istantaneamente nel mio corpo un calore mai sentito prima attraendomi a sé. Ben presto il bagliore si fece accecante al punto tale da costringermi a serrare gli occhi e ad urlare. Poi il buio, il risveglio e la sensazione che avrei dovuto cercare quella luce.

Sono sempre stato certo che la missione che il re aveva affidato a me e ai miei fratelli d’arme, avrebbe contribuito a modificare il passato nella sua interezza. Non solo un periodo o un fatto isolato. Intuivo che, cancellando il passato dell’uomo, il ritrovamento del Graal avrebbe annullato anche le conseguenze ad esso collegate, dando così inizio ad una nuova era. Questo convincimento aveva messo radici molto profonde nel mio cuore e nel mio spirito. Non avrei permesso a niente e a nessuno di estirparlo.

Continua…



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