È la febbre della gioventù che mantiene il resto del mondo alla temperatura normale. Quando la gioventù si raffredda, il resto del mondo batte i denti. GEORGE BERNASOS
Uno perde la più gran parte della sua giovinezza a colpi di errori.
LOUIS-FERDINAND CELINE
***
La maglietta che indossa Uccio ha smesso di essere una t-shirt dei Metallica. Adesso è un nero sudario hard rock che fascia il corpo flaccido del mio avversario. La luce del sole penetra dalla finestra alle mie spalle riverberando sul joint metallico della mia stecca mentre sfrego con il gesso l’estremità del puntale rivestito di cuoio. Più sfrego, più sudo. Un osservatore dall’esterno ci prenderebbe per pesci catatonici immersi in un grosso acquario colmo d’acquaccia torbida e stagnante.
Le bottiglie di Peroni hanno già perso la loro seducente patina ghiacciata. Quel che resta del nettare di luppolo tanto amato da muratori, camionisti e giovani fancazzisti senza una lira come noi, si è ormai fatto caldo. I ventilatori del locale sono in coma profondo da almeno un paio d’anni. Per uno come Alberto, spendere due spiccioli per ripararli credo sia pura eresia. Farlo, rappresenterebbe un atto di rottura con il glorioso passato, una picconata imperdonabile allo status quo. Dice di amare le cose vissute Alberto, a prescindere dal loro effettivo stato di funzionamento. Il fatto è che dalle mie parti stiamo ben attenti a non fare cambiare troppo rapidamente le cose.
I ventilatori scassati, i cabinati con i joystick smollati, il tavolo da biliardo scheggiato ai bordi, l’immortale flipper di Indiana Jones dal vetro zozzo e crepato in un angolo, i tavolini e le sedie di plastica bianca mezze sbilenche, i quattro poster sbiaditi appicciati al muro con lo sputo, il bancone di vetro e acciaio liscio rivestito sul davanti con del linoleum dal fintissimo effetto legno, il pozzetto dei gelati che qualcuno lascia aperto di un paio di centimetri nella vana speranza che quel leggero sbuffo ghiacciato possa regalare un po’ di refrigerio all’ambiente. Tutto l’armamentario contribuisce a rendere il bar di Alberto un degno rappresentante della vita di noi sbarbatelli e liceali di paese. Ex liceali a voler essere precisi. Ho chiuso da qualche settimana. Esame fatto. Tutto è andato come doveva, cioè bene. Ho fatto la mia porca figura e l’ho fatta fare ai miei. La lettura mi appassiona e lo studio mi riesce facile, nonostante i balordi che ruotano intorno alla mia vita e i loro continui tentativi di trascinarmi definitivamente verso le strade della perdizione. In questi roventi giorni di luglio, dell’autunno, del futuro, del tempo delle scelte, dell’università o della manovia, della penna o del mastice, non me ne frega una beneamata ceppa. È l’ultima estate priva di responsabilità. L’ultima estate da minorenne. L’ultima estate del decennio. L’ultima estate del secolo. L’ultima estate del millennio. Non voglio pensare a nulla di serio. Cazzo.
Con Uccio e il resto della ghenga, sarei dovuto salire sulla corriera qualche ora fa per andare al mare, ma ieri sera, stanotte, abbiamo tirato per le lunghe. In questi casi, cioè spesso, condividiamo una regola non scritta: al risveglio ripiegare sul bar di Alberto per divorare qualunque cosa sia commestibile accompagnandola con un caffè corretto a Varnelli. Nelle terre della Marca, quelli tosti o presunti tali, iniziano così le loro giornate. Come i batuffoli bianchi del pioppo che in primavera il vento sparge un po’ ovunque tra quelle valli, potenziali futuri beoni si posano, sbocciano e crescono. Alcuni, la maggior parte, si riprendono appena in tempo, altri appassiscono prematuramente.
Io e quel grassone dai capelli unti di Uccio siamo alle prese con una sfida a carambola, gli altri sono sparpagliati tra le due sale. Ste’ fuma una paglia e si mangia le unghie tutto assorto nella sacra lettura della Gazzetta dello Sport. Poi dicono che noi maschi non sappiamo fare più di una cosa contemporaneamente. Simone beve una coca mentre sta per chiudere una mano di briscola con Mirko che pare ancora mezzo assonnato. Fabio, Rambo per tutti, non sta fermo un attimo girando a vuoto come fanno quei matti dentro le loro stanze dalle pareti imbottite. Paolo sta addentando una pizzetta con la testa palesemente persa chissà dove. Pure lui mi sembra più di là che di qua. Alberto si dedica agli altri clienti che entrano e escono, ma tiene puntato il suo terzo occhio su ognuno di noi. Ci scommetterei su un pezzo da dieci.
Finito il suo pasto frugale, Paolo se ne esce svogliato con una proposta «Stasera facciamo un salto alla Grotta? Suonano Andrea e quei derelitti dei suoi amici». Ste’ alza gli occhi dal giornale e di rimando sbotta «Boh...vediamo non è che mi va tanto di sentire i Doors. Che palle, so’ morti e sepolti da un pezzo. Una bella serata a spaccarci sulla sabbia giù a Lido no?». Andrea e la sua band di sballati mi piacciono parecchio. Fanno pezzi tirati e pieni di grande rispetto per Jim, Ray e compagnia bella. Vivono per la musica e questa è già una cosa, una piccola certezza in quel mare di punti interrogativi che è la nostra giovinezza. Almeno per il momento, le due proposte cadono nel vuoto cosmico.
Simone si fa l’ultimo sorso poi si alza di scatto lasciando Mirko ancora con le carte in mano. Gioca con un cubetto di ghiaccio in bocca quando ci dice «Raga io vado a Servigliano. Quelli di Porta Marina mi stanno fracassando le palle con la storia delle prove per il Palio. Scappo. Se sopravvivo ci becchiamo in serata». Da un paio d'anni Simone è caduto nel gorgo degli sbandieratori. Personalmente, piuttosto che stare sotto al sole a fare il giullare con una bandiera in mano, preferirei di gran lunga una cura medioevale come quella pensata da Butch e Marcellus per Zed il poliziotto finocchio. Mi sa che Simo si è trovato un’amica da quelle parti. Contento lui, contenti tutti.
Nel frattempo, Paolo si è avvicinato al Tetris seguito da Mirko. Infila furtivo una moneta nella fessura. L’obolo non fa in tempo a cadere nel meccanismo, che Paolo ha già assunto la sua solita postura ingobbita e schiacciato la faccia al vetro che risplende di mille riflessi colorati. Lo sentiamo dire «Oggi faccio il record cazzo. Oggi lo faccio davvero». Ogni volta la stessa storia. Appena ha duecento lire in saccoccia, sente l’esigenza di incastrare mattoni che vantano un rapporto tutto speciale con la gravità. Saranno stati i troppi Lego maneggiati da piccolo a traviarlo. A dirla tutta, Paolo è forse l’unico tra noi che sembra avere le idee più o meno chiare sul suo futuro. Dice di voler fare biologia a Camerino. Vista la sua passione per i mattoncini digitali, forse farebbe meglio a buttarsi sull’ingegneria civile. Il tempo ci dirà.
Rambo è il più grosso della banda, un matto scatenato e anche un rompicoglioni di prima fascia. Deve aver scelto la sua vittima in questo preciso istante. Si avvicina al povero Paolo cominciando subito a prenderlo per il sedere sotto gli occhi di un Mirko guardingo. «Sei una mezza sega a Tetris, lo sanno tutti» gli sussurra sghignazzando, per poi continuare dicendo «Facciamo così, per ogni mattone che non si incastra, uno schiaffo» con un mezzo sorriso stampato in faccia. L’altro non lo degna di uno sguardo. «Eccolo, eccolo…eccolo che arriva!» continua Rambone che inizia lentamente a ruotare il busto e il braccio destro. Pochi istanti dopo fa partire lo scappellotto gridando «Punizione!». Paolo lo fissa torvo per un istante e gli fa «Fanculo stronzo. Levati dai coglioni» poi si gira e continua a concentrarsi sui mattoni che imperterriti piovono verso il basso.
Come un fottuto predatore, Rambo resta dove sta in paziente attesa. Prima di tornare a concentrarmi sul panno verde e sul colpo che mi sta aspettando, osservo un secondo quella testa di legno. Mi sembra di vedere una goccia di bava colargli da un lato della bocca. Una manciata di secondi dopo, mentre sto per colpire il boccino con la mia stecca sempre più scivolosa a causa delle mani sudate, sento forte un «Eccola che arriva! Punizione!» seguito da uno sganassone di quelli tosti. Accade tutto alla velocità della luce.
Ripresosi dalla botta, con scatto felino e occhi spiritati Paolo si gira verso Rambo urlando «Cristo t’ammazzo!» e gli salta sopra. Lo spilungone e il suo nuovo koala, amici/nemici di vecchia data, crollano a terra portandosi dietro due sedie, un tavolino e un bicchiere di Fanta mezzo pieno. Come un indemoniato, Paolo colpisce a tutto andare Rambo che non può fare altro che proteggersi testa e petto. Superato l’iniziale stupore, Ste’ e Mirko si lanciano sui due nel tentativo di dividerli. Anche Uccio, flemmatico come sempre, lascia cadere la stecca sul tavolo per poi uscirsene con un «E che cazzo proprio adesso che vincevo» mentre si avvicina per dare una mano. È tutta una bolgia. Accorrono anche un altro paio di clienti sdentati che smadonnano per la loro partita a carte rovinata da due stupidi ragazzini. Io mi sento le gambe di pietra. Non so bene perché, ma quella scena è riuscita ad inchiodarmi al pavimento del bar. A liberarmi dalle sabbie mobili ci pensano Alberto e la sua panza che da sempre incute in tutti noi un certo timore reverenziale. Quello è il suo territorio e nessuno può permettersi di superare il limite. Noi lo sappiamo bene, ma spesso facciamo beatamente finta di dimenticarcelo. Incazzato a morte, Alberto ulula come un grosso lupo grigio della steppa e fa partire un bestemmione di quelli epici.
Rambo e Paolo si congelano all’istante. Tutto si cristallizza. Pure le stramaledette zanzare si immobilizzano a mezz’aria. Per alcuni brevi istanti, un silenzio e una calma surreale si appropriano dell’intera scena. Una volta, durante una puntata di Quark, ho sentito che nell'occhio di un tornado tutto è immobile e silenzioso mentre poco più in là imperversa l'apocalisse. Più o meno come adesso nel bar di Alberto.
La sua bestemmia è stata come un interruttore nella mia testa. Sento improvvisa la necessità di lasciare quel girone di sbandati che stanno al mondo tenendo in tasca tanti sogni, poche idee e giusto i soldi per mettere un po’ di miscela nel motorino. I muscoli delle gambe mi si sciolgono, poggio la mia stecca ad una parete con la vernice bianca mezza scrostata e fuggo via senza spiccicare una parola con nessuno. Mi manca l’aria e non è per colpa del caldo. Con la coda dell'occhio vedo ancora svolazzare le tendine di plastica marrone che ho scostato per uscire dal bar quando da dentro mi raggiunge un «...cazzo vai?» urlato da quel fattone di Ste’. Me ne fotto.
Monto in groppa al vecchio Fifty top, un residuato bellico lasciatomi in eredità dal mio fratellone che da qualche anno sgobba in un calzaturificio della zona. Quel ferrovecchio ha visto giorni migliori, ma resta un fedele compagno di scorribande. Come quella della notte di agosto dell’anno scorso passata a bighellonare insieme a Rambo per le strade del centro storico dopo aver lasciato gli altri a fumare e ruttare sulle panchine del Pincio. Il mio pazzo amico alla guida, io dietro di lui e via a cazzeggiare. Ragazzi inquieti sotto un mantello di stelle inquiete pure loro. Vittime delle nostre idiozie notturne, gli specchietti di alcune auto in sosta che ci divertimmo a far saltare con la suola delle scarpe passando tangenti e veloci in sella al nostro bolide con la marmitta modificata. Cristo, faceva davvero un casino d’inferno e spezzò in due il religioso silenzio di quella notte. Credo che nemmeno l'F-14 pilotato da Maverick contro i russi faccia un rumore simile. Comunque, che stronzi patentanti, mamma mia.
Avvio il motorino e parto dirigendomi verso la lunga e ripida salita di Sant’Andrea. Mentre mi inerpico, a destra intravedo la linea blu del mare che si estende a perdita d’occhio. Sul lato opposto, imponente, lontano ma apparentemente così vicino, il fronte montuoso dei Sibillini. Il mio paese è arroccato giusto in mezzo con le vicine colline a separarlo dal blu profondo e dai crinali appenninici. Un numero spropositato di basse e dolci colline chiazzate di verde, del giallo dei girasoli e del marrone di una terra scottata dal sole nazista di luglio. Mentre risalgo la via solo come un cane, circondato da quel paesaggio intervallato da alcune case poste ai bordi della strada, chissà perché mi torna in mente il ricordo di Michele. Una notte di luglio di due anni fa, la morte si è fatta viva camuffata da Honda NSR 125 e gli ha giocato un brutto scherzo lungo la strada provinciale che scorre parallela al fiume Ete. Stava tornando da una delle tante feste della birra che dalle mie parti spuntano un po’ ovunque con l’arrivo della stagione estiva. Avrebbe compiuto diciassette anni pochi giorni dopo e mi stava simpatico Michele. Ad essere sinceri, non lo conoscevo benissimo.
Superato l’arco e volato via quel ricordo, continuo a salire attraversando gli stretti vicoli del centro storico che mi portano fino alla zona del teatro. Quello del mio paese è un piccolo ma bellissimo teatro con un bel pezzo di storia alle spalle. Noi ragazzacci lo amiamo particolarmente durante i giorni di Carnevale quando, per qualche ora, siamo liberi di trasformarlo in qualcosa a metà tra una sala da ballo e un’arena piena di gladiatori. Scalo le marce per affrontare l’ultimo pezzo bello ripido che mi separa dalla meta finale. Mentre salgo, vengo accolto da austeri e nobili tigli posti ai due lati del viale come a voler formare una fiera guardia d’onore.
Arrivato finalmente sul Pincio, accosto in un angolo, smonto dal motorino e di corsa mi dirigo verso il belvedere. Per fortuna non si vede anima viva in giro. Mi ha preso un bisogno smodato di parlare con un mio amico. Nessuno è a conoscenza della nostra amicizia. Se lo sapessero quei fessi dei miei compari di sventura, sarei condannato per l’eternità ad essere preso per il culo. Mi avvicino alla balaustra e comincio immediatamente a rivolgermi a lui.
***
A dividermi dai tuoi monti posti a ovest rispetto alla mia posizione, una lunga serie di quinte disegnate da colline sinuose e sfuggenti. I miei occhi le osservano dopo aver superato la ringhiera di ferro battuto che in quel momento pare mutare in una siepe di ligustro, bassa selva di foglie coriacee, lucide, verdi. La siepe, sorta di transizione tra il bosco e il prato, quella stessa siepe attraverso la quale errano le lucciole nelle sere d’estate. Chissà nella trance di quante meditazioni sarai caduto trovandoti in una posizione molto simile a quella che ho io in questo preciso momento. A fare compagnia ai tuoi pensieri, avrai avuto un sole calante o il lume della Luna? Entrambi. Sicuramente.
Guardo più o meno quello che guardavi tu. Spaziando da ovest verso sud-est, il mio sguardo incontra colline e ancora colline. Stessa cosa risalendo da ovest verso nord-est, anche se la chiesa e il palazzo del Comune alle mie spalle, ostruiscono parte di quella visuale. Se non ci fossero i due edifici, su entrambe i lati potrei osservare i colli tuffarsi nel mare lungo un arco di oltre centottanta gradi.
Stando sul Pincio, l’immensità del panorama mi avvolge in un turbinio di vertigini che mi causano una sorta di ebrezza leggermente oppiacea. I miei occhi lavorano al servizio dell’immaginazione che fa subentrare prepotentemente il fantastico a dispetto del reale. Amico mio, seguendo il tuo esempio e i tuoi passi, nel momento del bisogno ho ricercato e trovato la solitudine, un luogo rialzato posto in solitaria parte rispetto al resto del mondo e da cui, circondato dalla quiete e dal verde, potessi finalmente lasciarmi sopraffare dalla fantasia, sorella della libertà.
Li abbraccio tutti con un unico sguardo i tuoi amati monti. Avevi ragione a chiamarli azzurri. Guardandoli da lontano, in alcune ore del giorno assumono una leggera sfumatura che ricorda certe nuvole e lo zucchero filato. Mio nonno, che fesso non era, si è fatto tumulare nella parte alta del cimitero vecchio, un’ala posta su un’enorme terrazza panoramica affacciata a ovest. Dalla fine di gennaio dell’anno scorso, si gode la vista dei monti azzurri tutto il giorno. Non aveva studiato nonno. Come dice mio cugino Gabriele, il nostro vecchio in vita è stato un fiero “scolpitore della crosta terrestre”. La sapeva lunga nonno mio. Lunghissima.
I Sibillini sono monti che danno rifugio ai lupi e su cui amano volteggiare le aquile, ma sono anche montagne intrise di mille leggende e storie che tra queste valli conosciamo tutti. La vista di quei picchi mi ha ammaliato sin da ragazzino. Sarà forse il richiamo della Sibilla che, esiliata in tempi remoti, dicono che ancora si nasconda in un antro profondo scavato in una di quelle vette? Oppure ad ingabbiare la mia attenzione sono gli incantesimi e i riti eseguiti di notte da maghi e negromanti stabilitisi da secoli nei pressi del lago di Pilato? Il lago si, quel piccolo specchio d’acqua posto sotto una di quelle cime e nel quale si racconta che il demonio stesso annegò il leggendario prefetto della Giudea. Come con i cavalieri erranti illusi dal fascino magnetico della Sibilla che li ha poi condannati alla dannazione eterna, quelle montagne misteriose e arcaiche mi attraggono. Provo desiderio, curiosità ma anche paura.
Non ho ancora avuto il coraggio di proporre ai miei amici di salire su quelle vette desolate, ma una parte di me lo desidera ardentemente. La verità è che io sono una contraddizione vivente come la mia bellissima terra. Una terra che, in pochi chilometri, spazia dalle delicate linee dei colli che sembrano muoversi alla perenne ricerca di un contatto diretto con il mare, alle massicce pareti dei Sibillini, minacciosi e gelidi baluardi d’inverno, luoghi accoglienti e pieni di vita a metà anno, quando la calda e vitale luce estiva giunge a sfiorare la loro pelle di pietra.
Quei bastioni si stagliano all’orizzonte da tempo infinito. Tutta la tua breve vita, amico mio, è stata per te un costante confronto con l’infinito. Da quanto tempo ci conosciamo noi due? Cinque anni. Da quando, in primo liceo, Don Germano ti introdusse lentamente nella vita di tutti noi. Guardo i tuoi monti azzurri, lontane e immense Colonne d’Ercole che ambivi ad oltrepassare imprigionato come ti sentivi nella tua casa e nel tuo piccolo mondo. Quelle ciclopiche rocce custodi di tante leggende, quei monti che adesso mi sembra di poter toccare con una mano, svettano davanti ai miei occhi scolorendo in lontananza. Le osservo assumere un profilo via via sempre più vago, inafferrabile, etereo.
Riuscisti a superarle con la tua mente sublime e con il tuo ingegno interiore, ma non con il tuo fragile corpo. Ripenso a quel tuo passaggio ne “Le ricordanze” «…e che pensieri immensi, che dolci sogni mi spirò la vista di quel lontano mar, quei monti azzurri, che di qua scopro, e che varcare un giorno io mi pensava, arcani mondi, arcana felicità fingendo al viver mio!...».
Mi domando se io e i miei amici, in un futuro che sento braccarci sempre più da vicino, avremo il coraggio, la forza e l’inarrestabile desiderio di andare al di là, di scoprire cosa si cela oltre quelle vette, di comprendere cosa ha in serbo per noi il vasto mondo. Che dici, ci riusciremo amico mio? Ci riusciremo Giacomo?
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