Da timido ospite aprii la porta e misi piede nelle stanze di Roma soverchiato immediatamente dalla sua grandezza.
Imbattendomi nelle pagine di immortali pensatori e di grandi cronisti, l'avevo immaginata e sognata tante volte quando vivevo in terra d'Albione.
Tutti quegli sguardi posati su eleganti incisioni, immaginifici dipinti e pagine di libro, adesso acquisivano concretezza stando raccolti innanzi ai miei occhi.
Per raggiungere il cuore del mondo avevo attraversato leghe di mare disseminate di cavalli di Frisia, obbligato a sopravvivere ad una claustrofobica quanto mortificante quarantena.
Lo scrittore delle nostre vite aveva annotato sulla pergamena del mio destino anche lunghi giorni passati rinchiuso in una carrozza ad ammirare l'epico spettacolo della via delle vie, rovinato solo da vitto e alloggio scellerati.
Roma, custode dei tesori, dei segreti e della storia di un intero emisfero, da quel mattino di metà novembre divenni per sempre tuo.
Roma che salva, Roma che illude, Roma che corrompe spirito e corpo. Eccomi.
Ora che era tra le tue braccia, cosa avevi in serbo per un inglese malato e perennemente adombrato dall'intimo dolore del distacco e della perdita?
Avrei sorvolato i tuoi tetti e le tue tante meraviglie come la Fenice o sarei avvizzito come il ciliegio quando è circondato dal gelo?
Del tutto indifferente ai miei pensieri, il cocchiere si addentrò nel dedalo dell'urbe come fa il bracco quando segue la scia della volpe.
Ovunque abbondava una folla costituita dal meglio e dal peggio dell’umano essere.
Macellai, artisti, mendicanti, soldati, pollaroli, turisti, bottegai, preti, librai, poveracci, antiquari e vagabondi.
Tutti sembravano personaggi di un vecchio dipinto che fissa in un istante ciò che è eterno.
Proseguendo nel budello romano la carrozza attraversò strade che si aprivano di sghembo su grovigli di stretti vicoletti in penombra dai quali ogni tanto risalivano esalazioni tanto esotiche quanto maleodoranti.
Ogni tanto mi affacciavo dal finestrino e guardavo verso l’alto alla ricerca di spicchi di cielo.
Sbucammo da questi luoghi dalla topografia per noi completamente ignota, ritrovandoci sulla lunga e dritta via del Corso, eco dell’antico tratto urbano un tempo conosciuto come via Flaminia.
La vettura stava tagliando quella parte di Roma come fa il coltello affondato nel burro, quando, ad un preciso segnale del loro padrone, i cavalli abbandonarono via del Corso per imboccare finalmente la via dei Condotti.
Vicinissimi a concludere il nostro viaggio, io e Joseph eravamo ormai nel cuore di quello che sapevamo essere chiamato “Ghetto degli Inglesi”, l’enclave anglofona che, sin dai primi giorni del Grand Tour, si andava ammassando tra via del Corso e piazza di Spagna.
Ormai da tempo, quella zona brulicava di alberghi, osterie, locande, sale da tè e caffè letterari divenuti luoghi di ritrovo abituale per artisti e scrittori provenienti dall’Inghilterra, dalle Americhe e da altre regioni d’Europa.
A quei tempi, nessuno tra loro, tra noi, immaginava il prezioso contributo che avrebbe fornito fissando su tela, carta o spartito quello straordinario e fecondo momento di fermento culturale e artistico che avrebbe lasciato un segno indelebile nella storia plurimillenaria di Roma.
Venimmo infine accolti dall'elegante piazza di Spagna e, ancor prima di scendere dalla vettura, i nostri occhi si misero subito a scrutare le facciate dei palazzi signorili alla ricerca della pensione della signora Angeletti.
Il mio sguardo fu catturato dai mille gradini di Trinità dei Monti ed ecco, in basso a destra, la porta per accedere in un edificio color ruggine, punto ultimo del nostro lungo viaggio.
Avrei reso immortale quel palazzo, ma in quei giorni ero ancora all’oscuro di ciò che mi avrebbe riservato il futuro.
Mi sistemai sul piano nobile riponendo i miei due bauli accanto al letto di una stanza dotata di un caminetto e due finestre.
Una dava sulla splendida Fontana della Barcaccia, situata proprio al centro dell'elegante piazza, l'altra affacciava sul grande scalone, straordinario raccordo scenografico tra le pendici del Pincio e la sottostante agorà che deve il suo nome alla vicina ambasciata iberica presso il Vaticano.
In quei primi giorni speravo vivamente di avere le forze per assorbire l’energia di Roma che, come balsamo, avrei spalmato sui miei dolori e tormenti interiori.
Ancora una volta ispirato dalla lettura di Goethe, desideravo rinascere e mi illusi di poterlo fare a partire dall’istante in cui la suola delle mie scarpe ebbe toccato il selciato lastricato di sampietrini.
Era mia intenzione mettermi quanto prima sulle tracce lasciate dal grande tedesco e da Stendhal ammirando le colline che, fiancheggiando il grande Tevere, formano tortuose e dolci vallate che paiono volutamente disposte in modo da consentire all’architettura cittadina di mostrare fieramente gli innumerevoli e straordinari lasciti della sua antica storia.
Sarei salito sul celebre Gianicolo per ammirare, attonito, la moltitudine di cupole e tetti, lo spettacolo dell’elegante profilo del Quirinale sul monte Cavallo, per poi guardare più in là alla ricerca della torre da cui si dice che Nerone ammirò l’inferno in terra recitando follemente passi dell’Eneide accompagnati da note di cetra.
Avrei successivamente abbassato lo sguardo alla ricerca di palazzo Corsini e dei suoi mirabili giardini e, non ancora sazio, avrei cercato con gli occhi il riflesso del sole sul travertino che abbellisce l’imponente palazzo Farnese.
Ahimè buona parte di questi desideri rimase solo tale. Ero giunto a Roma in un periodo dell’anno che, sin da subito, sembrò voler frantumare qualsiasi speranza di un inverno mite e temperato.
Solo una volta i capricci del meteo e di un corpo che si faceva via via sempre più fragile, allentarono il giogo.
Quel giorno mi recai sul colle del Pincio volutamente prima del crepuscolo, a quell'ora in cui il sole bagna la città con i suoi raggi obliqui.
Ammirai così la luce del tramonto romano insinuarsi fra il fitto fogliame rossiccio, viola e giallo donando al tutto la parvenza di un luminoso dipinto a olio.
Osservando prati circondati da una sontuosa corona di lecci, querce, pini e le tante aiuole distribuite come una quinta di palcoscenico a più livelli, ebbi l’impressione che, sotto un sottile velo, Roma nascondesse la mitica Arcadia da secoli bramata da poeti, filosofi e uomini di pensiero.
Chissà, forse Shakespeare era stato raggiunto in sogno da immagini simili, prima di cominciare a scrivere di Oberon, Titania e del loro fatato regno.
Negli ultimi lembi di memoria legati a quei momenti, mi avvicino alla balaustra per osservare, stordito, il vasto Campo Marzio che al tramonto si dispiega davanti ai miei occhi con il volto imbellettato da luci del frutto d’arancio.
Ricordo che in quegli istanti ebbi la sensazione di sentire addosso gli occhi di Puck nascosto tra i cespugli alla mia sinistra.
Continua...
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