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18 novembre 1922: Proust muore. Proust vive.

Il buio di novembre è arrivato e si è preso Parigi.

Il crepuscolo, che era qui fino a poco fa, si è piegato al sopraggiungere della sera.

Dalla strada arrivano pochi e fievoli rumori.

C'è poco fermento tra le vie cittadine.

Le domeniche parigine sono sempre così.

Le domeniche parigine assomigliano ai sogni.

Eteree, intorpidite, rallentate, facilmente dimenticabili.

Da tempo non esco più di casa.

D’altronde, perché farlo? La mondanità non mi ha mai attratto.

L'ho sempre disprezzata alla maniera che mi è propria.

Inoltre fuori mi aspetta una minaccia invisibile, omnipresente e perpetua.

Che beffa dovere avere timore dell'aria che respiri quando hai sempre amato l'azzurro del mare e il verde della campagna.

Avverto il tempo sprecato a farmi narrare la vita dagli occhi che osservano per me il mondo attraverso i vetri delle finestre.

Ahimè, i fatti della vita mi hanno pian piano costretto a concedere poco spazio agli altri sensi.

Sono un recluso volontario.

La sentenza me la sono scritta da solo.

La mia mano è stata guidata da una bronchite mal curata.

È ormai troppo tardi, ne sono cosciente.

Secondo i medici avrei dovuto ascoltare con più attenzione le grida del mio fragile corpo.

Ho dato priorità solo a quelle provenienti dal mio spirito.

Riflettere, scrivere, riflettere e ancora scrivere lasciando scorrere quasi all'infinito il pennino sulla carta.

Da tempo ho ormai perso il conto delle pagine che ho scritto, delle innumerevoli revisioni, cancellazioni e note.

I manoscritti mi circondano, sono ovunque.

I manoscritti sono la carta da parati della mia vita.

Quante risorse interiori ho dovuto concedere alla mia spossante recherche, ma con quale gioia l'ho fatto!

Sono stanco, i polmoni faticano a stare dietro al battere del cuore.

Adesso avrei solo voglia di affacciarmi un'ultima volta, volgere il capo a sinistra, scorrere lo sguardo lungo rue Hamelin fino a scorgerla svettante tra i tetti.

Da quando ero poco più di un ragazzino, il grande manufatto fa capolino in tutti i miei ricordi visivi di Parigi.

Vorrei che ci fosse anche nell'ultimo ma non riesco ad alzarmi dal letto.

Sono stanco, sento che il mio corpo sta venendo a riscuotere il conto.

Per tredici lunghi anni ho scritto di tempo, di transitorietà della vita e di morte.

Dovevo farlo.

Sentivo di doverlo fare.

Lo sto facendo anche in questo momento.

È una pulsione contro la quale non posso alzare argini.

Chissà, magari dopo il momento finale i miei scritti vivranno lo stesso destino di quello che ho immaginato scrivendo di Bergotte.

Come i suoi, anche i miei libri veglieranno come angeli dalle ali spiegate e sembreranno, per me che non sarò più, il simbolo della mia resurrezione.

Adesso chiudo gli occhi un'ultima volta.

Adesso muoio per sempre, o forse no.

Chi può dirlo veramente?

Non ci sarà mai vera morte finché ci sarà scrittura.



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